Peritonite Sclerosante Incapsulante (EPS)
L’Encapsulating Peritoneal Sclerosis (EPS) è la complicanza più pericolosa della dialisi peritoneale (DP). Per descrivere lo stato attuale di questa problematica, basta leggere il recente editoriale di Peter Blake intitolato Lo spettro dell’EPS che recita: “Sebbene spesso descritta come una condizione rara, l’EPS è diventata una preoccupazione molto grossa in un numero di Paesi negli ultimi 5 anni. C’è la percezione che i casi stiano aumentando di numero, particolarmente dopo trapianto renale, e per alcuni nefrologi questa percezione ha suscitato preoccupazioni di fondo sull’uso della DP come terapia di sostituzione renale. Si potrebbe quindi dire che lo spettro dell’EPS sta perseguitando la DP”. A prescindere dal fatto che buona parte della Nefrologia abbia preso posizione sulla non opportunità di fissare “date di scadenza” nella durata della DP per paura dell’EPS, sembra utile mantenersi aggiornati su questa problematica in continua evoluzione. Questa review si propone di definire brevemente quanto è ormai accettato sull’EPS, porre l’accento sulle ultime acquisizioni e delineare le linee di ricerca future. Estensore: Guido Garosi (UOC Nefrologia, Dialisi e Trapianto – Azienda Ospedaliera Universitaria Senese) Revisori: L’Encapsulating Peritoneal Sclerosis (EPS) è la complicanza più pericolosa della dialisi peritoneale (DP). Per descrivere lo stato attuale di questa problematica, basta leggere il recente editoriale di Peter Blake intitolato Lo spettro dell’EPS [1] che recita: “Sebbene spesso descritta come una condizione rara, l’EPS è diventata una preoccupazione molto grossa in un numero di Paesi negli ultimi 5 anni. C’è la percezione che i casi stiano aumentando di numero, particolarmente dopo trapianto renale, e per alcuni nefrologi questa percezione ha suscitato preoccupazioni di fondo sull’uso della DP come terapia di sostituzione renale. Si potrebbe quindi dire che lo spettro dell’EPS sta perseguitando la DP”. A prescindere dal fatto che buona parte della Nefrologia abbia preso posizione [2] [3][4] (full text) [5] [6] sulla non opportunità di fissare “date di scadenza” nella durata della DP per paura dell’EPS, sembra utile mantenersi aggiornati su questa problematica in continua evoluzione. Questa review si propone di definire brevemente quanto è ormai accettato sull’EPS, porre l’accento sulle ultime acquisizioni e delineare le linee di ricerca future. Studi epidemiologici europei [7], [8] (full text), giapponesi [9], [10] (full text)[11] [11], coreani [12] e australiani [13] (full text) hanno nell’insieme evidenziato che l’incidenza totale di EPS è sostanzialmente stabile, attestata sull’1-3%. Recentemente si sono rese disponibili due pubblicazioni americane: sia negli USA [14] (full text) che in Canada l’incidenza[15] conferma questo ordine di grandezza. Scomponendo questo dato di incidenza totale, gli studi europei in generale [8] (full text) e olandesi in particolare [16] (full text), [17] (full text) hanno dimostrato un aumento dei casi di EPS dopo trapianto renale ed una diminuzione dei casi diagnosticati durante DP, fino al punto che attualmente oltre il 50% dei casi di EPS vengono diagnosticati dopo trapianto renale in ex-peritoneali. Gli studi giapponesi non risultano attendibili da questo punto di vista, data la limitatissima incidenza di trapianto renale in Giappone. Nell’esperienza olandese [18] (full text), il trapianto di rene è oggi il più significativo fattore di rischio per lo sviluppo di EPS, superiore ad ogni altro fattore, compresi la durata della DP e lo sviluppo di deficit di ultrafiltrazione, sia in regressione semplice che in multivariata. I dati olandesi dimostrano anche [19] (full text) che l’EPS attualmente contribuisce significativamente alla mortalità post-trapianto di rene, costituendo la quarta causa di morte dopo infezioni, cause cardiovascolari e neoplasie. Per molti anni la patogenesi dell’EPS ha visto due scuole di pensiero contrapposte. La scuola europea ha sostenuto [20], [21] (full text) che sclerosi semplice (SS) ed EPS rappresentano due entità nosologiche separate, sulla base di La scuola giapponese ha invece sostenuto [22] (full text) che SS ed EPS rappresentano due estremi dello spettro continuo di una unica entità nosologica direttamente correlata alla bioincompatibilità della dialisi peritoneale. Nel corso degli anni il modello patogenetico della scuola europea si è gradualmente imposto, tanto che anche Autori giapponesi [23] (full text) hanno accettato il modello della “two-hit hypotesis” che prevede lo sviluppo prima della SS collegata alla bioincompatibilità della DP e in un secondo tempo, in una piccola percentuale di pazienti, della EPS sulla base di un secondo stimolo spesso indipendente dalla DP e necessario per il suo sviluppo. Fino a tempi molto recenti non è stato tuttavia possibile comprendere nulla dei meccanismi di viraggio responsabili del passaggio da SS a EPS. Recentemente, tuttavia, alcuni lavori gettano una luce su questo importantissimo aspetto. La letteratura più recente[24] (full text) è concorde nell’individuare nel fibrocita stimolato dal Transforming Growth Factor-ß (TGF-ß la cellula responsabile di tale transizione; il fibrocita deriva a sua volta da 4 popolazioni cellulari: fibrociti residenti negli strati sub-mesoteliali, cellule mesoteliali trasformate mediante mesothelial-to-mesenchymal transition, cellule endoteliali, cellule reclutate dal sangue e derivate dal midollo osseo. È stato possibile anche individuare un meccanismo molecolare specifico all’interno del fibrocita associato al viraggio da SS a EPS. Nelle cellule mesoteliali in coltura [25] (full text) la proteina-chinasi p38 del fibrocita ha una azione anti-fibrotica: impedisce infatti la mesothelial-to-mesenchymal transition mantenendo elevata l’espressione di E-caderina. Al contrario, nel topo con EPS indotta mediante clorexidina intraperitoneale [26] (full text) la proteina-chinasi p38 sviluppa una potente azione pro-fibrotica stimolando direttamente la produzione di collagene. Un unico sistema molecolare del fibrocita si dimostra quindi in grado di stimolare una azione bifasica ed opposta nella fase di SS ed in quella di EPS. È ormai assodato che esiste una divergenza nelle descrizioni anatomo-patologiche della EPS sulla base della provenienza territoriale dei pazienti. Nelle descrizioni europee [27], [28] si rileva una fibrosi di spessore molto marcato, nettamente superiore a quanto riscontrato nella SS, con sostanziale assenza di forme di passaggio; si riscontrano inoltre una marcata componente infiammatoria sia acuta (infiltrati di neutrofili) che cronica (cellule giganti), calcificazioni che talvolta arrivano alla ossificazione, grossolano ispessimento delle pareti vascolari con significativa riduzione del lume vascolare. Nelle descrizioni giapponesi [23] (full text), [29] si riscontra solo un aumento della componente di fibrosi meno marcato rispetto a quanto riscontrato in Europa, con modificazioni marginali per quanto riguarda componente infiammatoria, calcificazione e danno vascolare. Per spiegare questa variabilità sono state ipotizzate motivazioni legate ad un assetto geneticamente differente tra le varie popolazioni ed è stata suggerita l’utilità di una banca di DNA [30] (full text), ma al momento attuale non si sono ancora riscontrati passi in avanti significativi. Recentemente è stato dimostrato [31] (full text) che la podoplanina può rappresentare un marker immunoistochimico sensibile e specifico per la diagnosi di EPS su biopsia peritoneale. Dato che la podoplanina è capace di legarsi alle chemochine, questo dato può preludere a sviluppi interessanti per quanto riguarda la patogenesi della EPS stessa, in quanto può rappresentare un ponte tra dato morfologico e meccanismi infiammatori/immunologici. Negli ultimi tempi sono comparsi anche dati [32] (full text) sulla presenza di recettori ormonali e markers di fibrosi nel peritoneo di pazienti con EPS, in particolare è stata dimostrata la presenza di recettori per la vitamina D. È interessante segnalare come quasi contemporaneamente un diverso gruppo di ricercatori [33] ha dimostrato che l’1,25(OH)2D3esercita un effetto protettivo su cellule mesoteliali in coltura esposte ad alte concentrazioni di glucosio e lipopolisaccaride; sembra tuttavia poco probabile che il trattamento con vitamina D possa dimostrare una efficacia significativa nell’EPS, se non altro per l’uso già estremamente diffuso di vitamina D o derivati in questi pazienti. La ricerca di markers nel dialisato peritoneale capaci di predire con specificità e sensibilità significative lo svilupparsi di EPS rappresenta ovviamente un argomento di estrema importanza. Allo stato attuale, un markers di sicura affidabilità non esiste. I risultati migliori[34] (full text) si ottengono mediante il dosaggio nel dialisato di CA125 e IL-6: in pazienti con deficit di ultrafiltrazione, una diminuzione del primo al di sotto delle 33 U/min associata ad un aumento della seconda al di sopra dei 350 pg/min ha una sensibilità del 70% e una specificità del 100% per la diagnosi di EPS. Ricordiamo come il deficit di ultrafiltrazione e l’aumento del trasporto peritoneale di soluti rappresentano fattori di rischio per EPS, ma che questa può svilupparsi in pazienti con trasporto ed ultrafiltrazione di qualsiasi tipo. Recentemente sono comparsi due modi completamente innovativi di affrontare il problema dei markers di EPS nel dialisato. Il primo riguarda la possibilità di utilizzare in questo senso i microRNA presenti nel dialisato: esistono promettenti indicazioni [35] sulla loro utilità in questo senso, tuttavia ad oggi nessun dato di conferma è stato pubblicato e quindi questo approccio rappresenta attualmente un interessante campo di ricerca che tuttavia attende riscontri più precisi. La seconda modalità impiega tecniche avanzate di proteomica ed ha fornito risultati di estrema concretezza, anche se al prezzo di metodiche non routinarie. In Gran Bretagna[36] è stato raccolto con prelievi seriati nel tempo il liquido di dialisi di 600 pazienti in DP, 11 dei quali hanno sviluppato EPS. Mediante sofisticate tecniche di spettrometria di massa e assorbimento atomico sono stati determinate nel dialisato molte decine di composti, suddivisi in 4 famiglie: zuccheri ed alcoli, amminoacidi e loro derivati, acidi organici e loro derivati, sostanze diverse miscellanee. Il confronto di questi complessi patterns ha effettivamente permesso di individuare un insieme di markers costituito da un totale di 24 sostanze (6 aminoacidi, 3 etanolamine, 7 zuccheri e 8 acidi organici a catena corta) che nell’insieme costituiscono un markers nel dialisato di EPS con specificità e sensibilità di assoluta sicurezza. Ciò rappresenta da un punto di vista scientifico un risultato di assoluto rilievo, anche se attualmente non risulta certo possibile applicare questo tipo di analisi routinariamente a tutti i pazienti in DP in modo da poter screenare chi sta sviluppando EPS. I 3 punti fondamentali della diagnostica sono tutt’ora rappresentati da clinica, TC e istologia. La clinica [20], [37] (full text), [38] può andare da vaghi disturbi intestinali (nausea, vomito, diarrea, alvo alternante tra stipsi e diarrea) fino all’ileo meccanico; coesistono spesso compromissione dello stato generale, malnutrizione, febbricola, elevazione della PCR. L’esordio è spesso insidioso, ma può manifestarsi anche direttamente come ileo paralitico senza nessun preavviso clinico. La TAC rappresenta l’indagine radiologica di elezione [39] (full text); l’uso del mezzo di contrasto è suggerito, ma non mandatorio. I segni indicativi di EPS sono 6: enhancement peritoneale, ispessimento del peritoneo, calcificazioni peritoneali, adesione delle anse intestinali, segni di ostruzione, loculazione di fluidi con eventuali setti. È opportuno ricordare che la TAC ha una ottima sensibilità e specificità nella diagnosi di EPS, ma non ha valore in prevenzione [40] (full text): l’EPS si può sviluppare in pazienti con TAC negativa pochi mesi prima della diagnosi. Nei casi dubbi, l’istologia continua ovviamente ad avere un valore determinante [20],[37] (full text), [38]. È interessante segnalare il tentativo della Scuola inglese [41] (full text) di sviluppare una metodica diagnostica specifica per EPS mediante una cine-RNM: l’acquisizione standardizzata di diverse sequenze RNM addominali permette di evidenziare come nei pazienti affetti da EPS la motilità intestinale riguarda solo le zone sottodiaframmatiche, mentre nei controlli si estende fino ai quadranti inferiori dell’addome. La prima documentazione morfologica della efficacia della inibizione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone nel limitare la fibrosi submesoteliale risale al 2001 [42] (full text). Da allora, numerosissimi studi hanno confermato l’utilità di questa terapia nei pazienti in DP sia a livello anatomico che funzionale ( [43], [44], [45] (full text) [46]. La terapia con ACE-inibitori, sartanici e (solo in casi selezionati) con anti-aldosteronici dovrebbe quindi essere considerata pressoché elettiva nei pazienti di DP ipertesi. Limitare la SS rappresenta di per sé un risultato di primario rilievo e può risultare utile anche nella prevenzione della EPS: anche se la EPS è una entità nosologica a sé stante e necessita di un secondo stimolo non direttamente correlato alla bioincompatibilità della DP, resta tuttavia evidente che la SS è il substrato su cui la EPS si può sviluppare. Sulla scorta di queste considerazioni, Witowski e Jörres proposero per primi nel 2005[47] (full text) l’utilizzo elettivo di ACE-inibitori e sartanici nei pazienti ipertesi in DP. Nel 2009 Garosi e Oreopoulos [2] hanno sostenuto la stessa tesi e da allora molti nefrologi hanno sostenuto questo approccio. Da un punto di vista storico, in era pre-ciclosporina furono osservati diversi casi di pazienti con EPS la cui patologia peritoneale regrediva dopo trapianto di rene. Si sottolinea che, in questa epoca precedente l’introduzione degli inibitori della calcineurina, la terapia immunosoppressiva del trapiantato di rene era basata su steroidi ad alto dosaggio; nelle prime fasi veniva di solito associata la ciclofosfamide, che a distanza dall’intervento veniva shiftata ad azatioprina. Sulla base di queste osservazioni diversi casi di EPS furono trattati con steroidi da soli od associati a ciclofosfamide seguita da azatioprina. Negli anni successivi, l’osservazione di aspetti infiammatori importanti nelle biopsie peritoneali di pazienti con EPS (almeno in ambito europeo) unita al sospetto di un coinvolgimento immunologico nella patogenesi dell’EPS fornirono un supporto razionale a questo approccio. Sulla base delle evidenze disponibili, gli schemi che hanno dimostrato una reale efficacia risultano l’impiego di steroidi da soli ad alte dosi oppure l’impiego di steroidi associati a ciclofosfamide [48] , [49] (full text) [50], [51] (full text) [52] (full text) [53] (full text) [54]. L’efficacia dei cortisonici da soli nel trattamento dell’EPS è attestata non solo da numerosi case-report, ma anche da studi abbastanza ampi effettuati prevalentemente da ricercatori di Scuola giapponese [48], [49] (full text) [50], [51] (full text) [52] (full text) [55] ,[54] [53] (full text) [54]. Esiste inoltre la dimostrazione sperimentale nell’animale di un effetto protettivo degli steroidi sullo sviluppo di fibrosi peritoneale in ratti con EPS indotta da clorexidina [56] (full text). In queste esperienze gli steroidi vengono generalmente impiegati ad alto dosaggio: boli ev di metilprednisolone 500 mg oppure prednisone 0.5-1 mg/kg/die per os. con lunghezza del trattamento decisa caso per caso sulla base della risposta clinica e laboratoristica. Generalmente i migliori risultati sono stati ottenuti con un inizio precoce della terapia steroidea. Buoni risultati sono riportati anche per quanto riguarda l’impiego associato di steroidi e ciclofosfamide oppure steroidi e azatioprina [48], [48], [49] (full text), [50], [51] (full text)[52] (full text) [55] , [53] (full text) [54]. Generalmente in questi casi gli schemi impiegati più comunemente sono stati prednisone 0.5 mg/kg per os associato a ciclofosfamide 1 mk/kg per os oppure prednisone 0.5 mg/kg per os associato ad azatioprina 1 mg/kg per os, sempre con durata della terapia personalizzata sulla risposta clinica e laboratoristica. Esiste anche un report [55] sulla utilità di associare prednisone 50 mg/die e micofenolato mofetile 500 mg x 2/die. In tutti questi casi il giudizio sulla reale efficacia della terapia per quanto riguarda ciclofosfamide, azatioprina e micofenolato è condizionato anche dal fatto che questi farmaci sono stati sempre utilizzati in associazione allo steroide. Esiste inoltre il fatto che nei modelli animali di fibrosi peritoneale indotta da clorexidina l’azatioprina non ha dimostrato un effetto protettivo [56] (full text). In definitiva, nella scelta tra trattamento con solo steroide oppure con steroide associato a ciclofosfamide, azatioprina o micofenolato sembra importante considerare la situazione del singolo paziente e la sua possibilità di tollerare gli effetti collaterali dei farmaci scelti. Da molto tempo il tamoxifene è considerato una rilevante arma terapeutica [57], [58],[59] (full text) [60], [61] (full text) [62], [63] per l’EPS. La sua azione antifibrotica non sfrutta l’effetto anti-estrogenico della molecola, come è confermato dalla recente dimostrazione di assenza di recettori per gli estrogeni [32] (full text) nel tessuto peritoneale di pazienti con EPS; si basa probabilmente su un effetto mediato attraverso una modulazione di attività del TGF-ß e una inibizione della angiogenesi [64] (full text) Recentemente una analisi dei dati del registro EPS olandese [64] (full text) è riuscita a dimostrare una sopravvivenza significativamente migliore in 24 pazienti con EPS trattati con tamoxifene rispetto a 39 pazienti non trattati con tamoxifene (mortalità 45.8% vs 74.4%; p=0.03) e tale significativa efficacia è risultata indipendente da contemporanei trattamenti con steroidi o di altro genere. Questo risultato dimostra una volta per tutte che il trattamento con tamoxifene rappresenta un approccio terapeutico per l’EPS che il nefrologo non può ignorare. Il trattamento è proposto alla dose giornaliera di 10-20 mg per os: a tali dosaggi le complicanze di ordine trombotico o neoplastico a carico dell’endometrio risultano praticamente assenti, anche se viene ovviamente raccomandato un controllo dell’assetto coagulativo in tutti i pazienti ed una valutazione dello striscio ginecologico nelle pazienti di sesso femminile. La terapia con tamoxifene è associabile a terapia medica con steroidi o steroidi + immunosoppressori e anche alla terapia chirurgica. Un trattamento a basso dosaggio (10 mg/die) con tamoxifene è stato proposto [2], [6] anche come possibile trattamento profilattico contro lo sviluppo di EPS in pazienti a rischio, per esempio soggetti in DP da più di 5 anni o che sviluppano deficit di ultrafiltrazione. Non esistono dati pubblicati su questo tipo di approccio, che rappresenta al momento solo una proposta dibattuta in varie controversie nazionali e internazionali. La recente dimostrazione di una effettiva significativa efficacia terapeutica del tamoxifene nell’EPS unita alla semplicità d’uso ed alla assenza di effetti collaterali [64] (full text) potrebbe indurre a considerare favorevolmente questo tipo di profilassi, in casi selezionati dai singoli nefrologi responsabili della terapia e dopo discussione con il paziente del rapporto rischio/beneficio. Trattando dell’epidemiologia e del ruolo terapeutico dei cortisonici, abbiamo già osservato come in era pre-ciclosporina, quando la terapia immunosoppressiva post-trapianto era basata su cortisonici ad alte dosi associati a ciclofosfamide e azatioprina, l’EPS post-trapianto era molto rara, mentre è divenuta preoccupantemente diffusa in seguito, quando la terapia immunosoppressiva è stata basata sugli inibitori della calcineurina (CNI), ciclosporina e tacrolimus, associati a dosi sempre più ridotte di cortisonici. Se, come abbiamo visto, la progressiva riduzione dei cortisonici può costituire in fattore di rischio per EPS post-trapianto, la maggiore responsabilità sembra legata al ruolo pro-fibrotico dei CNI. Le evidenze in questo senso sono molto significative. In tutti i casi in cui viene riportata la terapia immunosoppressiva effettuata in pazienti con EPS post-trapianto[8] (full text), [16] (full text) [17] (full text) [18] (full text) , [65], [66] questa risulta invariabilmente basata sui CNI. La terapia con CNI è associata allo sviluppo di EPS post-trapianto anche in pazienti con trapianto di fegato, con reni nativi perfettamente funzionanti e mai sottoposti a DP [67]. Il gruppo di Krediet ha dimostrato [68] che la ciclosporina induce fibrosi peritoneale e neoangiogenesi in ratti sottoposti a DP e che questo effetto è mediato da un aumento di produzione di TGF-ß, Vascular Endotelial Growth Factor (VEGF) e Connective Tissue Growth Factor (CTGF). Il gruppo di Duman ha confermato [56] (full text) che la ciclosporina esercita un potente effetto pro-fibrotico e pro-angiogenetico in un modello sperimentale di ratto sottoposto con EPS indotta tramite clorexidina. Del resto, questa azione peritoneale dei CNI rappresenta solamente un effetto locale della azione pro-fibrotica e pro-angiogenetica che questi farmaci notoriamente esercitano a livello sistemico in generale e renale in particolare e mediato da diversi meccanismi operanti sulla espressione di TGF-ß e VEGF e dei loro recettori [69], [70] ,[70] [71], [72], [73] (full text): basta pensare alla notissima problematica dell’effetto nefrotossico di questi farmaci. Al contrario, esistono consistenti evidenze di un effetto protettivo sullo sviluppo di EPS esercitato dagli inibitori del mammalian target of rapamycin (mTOR-I), cioè sirolimus ed everolimus. Duman ha dimostrato per primo nel ratto trattato con clorexidina intraperitoneale [74] un significativo effetto protettivo dell’everolimus sulla fibrosi e sulla neovascolarizzazione peritoneali, associato anche ad un effetto di protezione sullo sviluppo di deficit di ultrafiltrazione peritoneale; recentemente Ceri ha confermato gli stessi risultati in un lavoro indipendente [75]. Questo effetto degli mTOR-I sul peritoneo è mediato da una inibizione di fibrosi e neoangiogenesi che avviene con vari meccanismi molecolari: il gruppo di Selgas ha dimostrato su cellule mesoteliali umane in coltura [76] che la rapamicina previene la fibrosi inibendo l’epithelial-to-mesenchymal transition con un meccanismo molecolare complesso mediato dall’aumento di espressione di E-caderina associato ad una diminuzione di espressione di a-SMA, mentre il gruppo di Sekigushi ha dimostrato[77] che la rapamicina inibisce l’angiogenesi peritoneale indotta da TGF-ß bloccando la risposta ipossica secondaria. Questi effetti antifibrotici e antiangiogenetici peritoneali rappresentano la manifestazione locale del ben noto effetto di inibizione su fibrosi ed angiogenesi che gli mTOR-I esercitano a livello sistemico [78], [79], [80], [81] (full text),[82] (full text)). Da molti anni gli mTOR-I costituiscono i farmaci principali di protocolli immunosoppressivi per trapianto di rene, noti ad ogni nefrologo, tesi a minimizzare a abolire l’uso dei CNI allo scopo di prevenire l’effetto nefrotossico dei CNI stessi e di garantire così una maggiore emivita del trapianto di rene e/o una sua maggiore funzionalità nel lungo termine [83], [84], [85], [86]. Ad oggi esiste un solo caso riportato di EPS post-trapianto insorta durante terapia con sirolimus [87] (full text), ma la paziente in questione ha in realtà sviluppato la EPS a 13 mesi dal trapianto, dopo essere stata trattata nei primi 7 mesi con tacrolimus a dose piena e nei seguenti 6 mesi con sirolimus a causa di un effetto nefrotossico dovuto al tacrolimus: in sostanza in questo caso l’EPS si è sviluppata dopo 7 mesi di tacrolimus seguiti da 6 di sirolimus e quindi il significato di questo report risulta estremamente dubbio. Cominciano invece ad essere segnalati casi di EPS post-trapianto insorte in terapia con CNI e dominate mediante shift immunosoppressivo a mTOR-I [88]. Sulla base di queste evidenze sul legame tra immunosoppressione e sviluppo di EPS post-trapianto, nel 2009 Garosi e Oreopoulos hanno proposto [2] di valutare un protocollo immunosoppressivo personalizzato per i pazienti in DP che ricevono trapianto di rene basato su mTOR-I, steroidi e micofenolato mofetile, con minimizzazione o abolizione dei CNI. Fino ad oggi non è stato possibile organizzare un simile protocollo: il motivo addotto dalle Case farmaceutiche coinvolte nella ricerca e commercializzazione di immunosoppressori è stato fondamentalmente l’elevato costo di uno studio del genere, che dovrebbe prevedere l’osservazione per due anni di un numero rilevante di pazienti trapiantati, stante la bassa frequenza attesa di EPS post-trapianto ed il suo sviluppo prevalentemente nel primo biennio post-trapianto. Nulla vieta comunque che i singoli Centri trapianto adottino protocolli di questo tipo per il trattamento dei pazienti trapiantati provenienti dalla DP, dati gli ottimi risultati osservati con questo genere di protocolli in pazienti non selezionati sulla base della modalità di dialisi pre-trapianto [83], [84], [85], [86]. Sulla scorta di quanto esposto nel precedente capitolo sulla immunosoppressione nell’EPS post-trapianto, si vanno diffondendo tentativi di utilizzo degli mTOR-I nella terapia della EPS anche in pazienti non sottoposti a trapianto. Sono già usciti nel 2012 i primi case-report con segnalazioni incoraggianti riguardo a tale terapia [89], che fra l’altro risulta facilmente associabile a steroidi e tamoxifene. La nutrizione parenterale rappresenta un presidio terapeutico di riconosciuta efficacia nell’EPS [20], [37] (full text), [38], [50], [52] (full text), [53] (full text), [54], indispensabile quando si verificano condizioni cliniche di pronunciata malnutrizione o di alterato transito intestinale con tendenza alla subocclusione; è molto utilizzata anche nelle fasi pre-chirurgiche e post-chirurgiche. Non esiste una formulazione precisa del tipo di nutrizione parenterale da utilizzare, che andrà personalizzata sulla condizione metabolica del singolo paziente, né sulla durata della terapia, largamente variabile sulla base della situazione clinica e della risposta individuale. La terapia chirurgica rappresenta un’arma di primaria importanza nel management dell’EPS [20], [37] (full text), [38], [50], [52] (full text), [53] (full text), [54]. Nei primi tempi l’indicazione a terapia chirurgica sembrava limitata ai casi di ileo meccanico, ma nel corso degli anni si è estesa a situazioni clinicamente più lievi e attualmente i risultati migliori sono riportati proprio in pazienti in cui l’intervento chirurgico è stato praticato in epoca relativamente precoce. La tecnica chirurgica prevede vari approcci che vanno dalla semplice resezione del tratto intestinale sede di ileo meccanico a lunghi, pazienti, complessi interventi di sbrigliamento delle anse con lisi delle aderenze e decorticazione dello strato superficiale sede di fibrosi; proprio questi approcci più impegnativi consentono di raggiungere i risultati migliori. Si tratta quindi di interventi specialistici, in cui la tendenza internazionale è di centralizzare i trattamenti in pochi Centri di riferimento. L’esperienza più vasta in questo senso è senza dubbio quella giapponese. Nel 2011 è stata pubblicata l’esperienza del Centro di riferimento di Hiroshima [90], che ha centralizzato il trattamento chirurgico di 181 pazienti con EPS per un totale di 239 procedure chirurgiche (alcuni pazienti sono stati operati più di una volta). I risultati sono di estremo interesse; in particolare la mortalità è risultata di appena il 35.4%: questo dato rappresenta l’esito più favorevole in assoluto riportato in letteratura per quanto riguarda l’EPS, superiore a qualunque casistica basata su trattamenti medici. Ottimi risultati sono stati riportati del tutto recentemente anche dal gruppo di Stoccarda, che ha centralizzato la terapia chirurgica per pazienti con EPS diagnosticati in Germania: ad ora la sopravvivenza è di 33 pazienti su 42 operati [91]. Una centralizzazione della terapia chirurgica è stata effettuata anche in Inghilterra, principalmente presso il Centro di Manchester e secondariamente a Cambridge. Questa esperienza del Regno Unito, che riguarda complessivamente circa 60 pazienti, non è stata ad oggi pubblicata, tuttavia è stata oggetto di comunicazioni al 10th European Peritoneal Dialysis Meeting di Birmingham (UK), 21-24 Ottobre 2011, dove sono stati illustrati risultati molto positivi. In Italia manca ad oggi una esperienza di centralizzazione della terapia chirurgica per EPS, mentre esistono esperienze parcellizzate costituite da qualche caso trattato in vari Centri. Sarebbe opportuna la costituzione di Centri di riferimento in tal senso. È estremamente interessante segnalare come negli ultimi due anni sono comparse studi sperimentali che dimostrano a livello di istologia sperimentale su modelli animali una significativa azione terapeutica contro l’EPS da parte di numerosi farmaci già conosciuti ed impiegati per patologie diverse. In tutti questi casi i dati morfologici sono particolarmente impressionanti e tali da giustificare studi clinici su pazienti umani, dei quali tuttavia ad oggi non esiste traccia. I farmaci in questione risultano: il clodronato, noto come agente anti-osteoporotico [92]; il pioglitazione, antidiabetico orale [93]; la talidomide, attualmente impiegata nella terapia del mieloma [94] (full text); l’octreotide, analogo della somatostatina usato nei tumori neuroendocrini gastrointestinali [95]; il fasudil, vasodilatatore inibitore della rho- chinasi impiegato dai neurologi nelle demenze e dai neurochirurghi nella prevenzione del vasospasmo cerebrale associato ad emorragia [96]; la benfotiamina, derivato della vitamina B utilizzato nella prevenzione delle complicanze diabetiche[97] (full text). Promettenti risultati istologici in modelli animali di EPS sono stati riportati anche per l’epigallocatechina [98], un polifenolo contenuto nel tè verde, e per il tanshinone [99], composto estratto dalla radice di Salvia miltiorrhiza e impiegato nella medicina tradizionale cinese. In definitiva, le evidenze più recenti dimostrano buoni risultati nel trattamento medico e chirurgico dell’EPS e sottolineano l’importanza della precocità della terapia. Considerando l’impegno della patologia e la tipologia dei pazienti un trattamento medico che potrebbe essere proposto (da discutere comunque caso per caso verificando le caratteristiche del singolo paziente) sembrerebbe rappresentato dall’associazione di steroidi (prednisone 0.5 mg/Kg/die) + tamoxifene 10 mg/die + sirolimus od everolimus con livello ematico mantenuto sui valori di riferimento della terapia post-trapianto in assenza di terapia con CNI. Il monitoraggio dei livelli ematici diventa particolarmente importante in questi pazienti, vista l’ampia variabilità della posologia necessaria per il raggiungimento del range ematico terapeutico. Data l’elevata incidenza di recidiva anche nei pazienti che rispondono, sembra opportuno proseguire la terapia per periodi prolungati, non inferiori a sei mesi. Soprattutto nei pazienti con sintomatologia intestinale comprendente stato subocclusivo è inoltre indicata una valutazione per intervento chirurgico. La prevenzione dell’EPS costituisce ad oggi un argomento non risolto. Le misure raccomandate comprendono l’accurata prevenzione ed il miglior trattamento possibile degli episodi di peritonite acuta, l’utilizzo di soluzioni di dialisi biocompatibili (sull’esatta definizione delle quali non esiste accordo), il monitoraggio delle caratteristiche di ultrafiltrazione e trasporto della membrana peritoneale [2], [5], [6], [20], [37] (full text), [38]. E’ opinione comune che l’insieme di tali misure possa diminuire l’incidenza di EPS. Altre misure raccomandate sono rappresentate dall’uso estensivo dell’inibizione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone nella terapia dell’ipertensione arteriosa in DP [2], [6], [47] (full text) con esclusione del ricorso a beta-bloccanti [20], [37] (full text), [38], farmaci notoriamente a rischio per lo sviluppo di fibrosi peritoneale. Dato che si tratta di un effetto di classe, qualunque beta-bloccante può essere coinvolto, per esempio propranololo, oxprenololo, atenololo, metoprololo; la molecola più rischiosa in assoluto è risultata il practololo, tolto dal commercio proprio per questo motivo [100]. Per quanto riguarda le proposte di istituire una profilassi con tamoxifene nei casi a rischio (per esempio durata della DP superiore a 5 anni, sviluppo di deficit di ultrafiltrazione) e di adottare un protocollo immunosoppressivo personalizzato per i pazienti in DP che vengono sottoposti a trapianto di rene [2], [6] si rimanda a quanto già esposto per la terapia. È infine importante sottolineare l’utilità di un approccio il più possibile integrato e sovranazionale alla tematica dell’EPS [101] (full text): solo in questo modo sembra possibile affrontare una patologia così rara, impegnativa, multiforme e per molti aspetti sfuggente. Si ricorda a tutti i Nefrologi l’opportunità di segnalare e registrare ogni caso osservato sul sito europeo www.epsregistry.eu munendosi di id e password personali direttamente ottenibili collegandosi al sito. [1] Blake PG: The specter of EPS. Perit Dial Int 2011;31:244 [4] Brown EA, Van Biesen W, Finkelstein FO et al. 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Premesse
Epidemiologia
Patogenesi
Anatomia Patologica
Markers nel dialisato
Diagnosi
Terapia
Inibizione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone
Cortisonici, ciclofosfamide, azatioprina, micofenolato
Tamoxifene
Immunosoppressione ed EPS post-trapianto
mTOR-I nella terapia dell’EPS
Nutrizione parenterale
Terapia chirurgica
Nuovi farmaci
Conclusioni sulla terapia
Prevenzione
BibliografiaReferences