NEFROLOGIA INTERVENTISTICA IN DIALISI PERITONEALE
Stefano Santarelli1, Valentina Ramazzotti1, Rosa Maria Agostinelli1, Giorgio Degano2
- UNITÀ OPERATIVA COMPLESSA DI NEFROLOGIA E DIALISI – OSPEDALE “CARLO URBANI” – JESI (AN)
- UNITÀ OPERATIVA COMPLESSA DI CHIRURGIA GENERALE – OSPEDALE “CARLO URBANI” – JESI (AN)
Revisori esperti: Gianpaolo Amici, Emilio Galli, Maurizio Gallieni, Valerio Vizzardi
Revisore di riferimento: Giovanni Cancarini
INTRODUZIONE
Il corretto posizionamento del catetere per dialisi peritoneale e la gestione delle sue complicanze sono ancora oggi tra i principali ostacoli alla diffusione ed alla corretta esecuzione della metodica. Sono in diminuzione le UU. OO. di Nefrologia autonome nella gestione degli accessi per la dialisi e la collaborazione con i Chirurghi non è sempre ottimale.
Presso l’Ospedale “Carlo Urbani” di Jesi è attiva da anni una concreta collaborazione tra la U.O. di Nefrologia e quella di Chirurgia Generale dalla quale è stato sviluppato questo progetto che può diventare un prezioso aiuto nella nostra pratica quotidiana e rappresenta un valido esempio di cooperazione tra Nefrologi e Chirurghi per il bene dei pazienti.
Valerio Vizzardi
INDICE DEI CONTENUTI
Le ernie della parete addominale sono frequenti nella popolazione generale e dipendono solitamente dall’età anagrafica e dalla predisposizione individuale. I tipi più frequenti sono le ernie ombelicali, le ernie inguinali e le ernie incisionali o laparoceli.
Nei pazienti da avviare alla dialisi peritoneale (PD) va fatta una valutazione pre-operatoria e, se lo si ritiene necessario, nel sospetto di un’ernia sintomatica ma non sicuramente evidenziabile con l’esame clinico, vanno usate anche l’ecografia, la scintigrafia o la TC peritoneografia o la Risonanza Magnetica (RM) [1].
Molto spesso nei pazienti in PD predisposti, la comparsa di un’ernia è una complicanza acquisita secondaria alla metodica e si manifesta subito dopo l’avvio (si tratta spesso di ernie già presenti ma misconosciute) o anche a distanza di mesi o anni dall’inizio della PD. La causa è sempre dovuta all’aumento della pressione intraperitoneale indotta dalla presenza del liquido di dialisi.
In passato si riteneva che la correzione delle ernie, preesistenti all’inizio della PD, andasse fatta prima del posizionamento del catetere e che la correzione di un’ernia, complicanza della PD, fosse seguita da almeno 4 settimane di sospensione della metodica dialitica con passaggio all’emodialisi se non fosse stato possibile discontinuare temporaneamente iI trattamento sostitutivo.
Nel 1981 fu riportata una delle prime casistiche (6 pazienti) di riparazione delle ernie in soggetti già in PD, con continuazione immediata della metodica con piccoli scambi e buoni risultati [2].
Nel 1994 vennero presentati i risultati di riparazione delle ernie con rete sintetica [Fig. 1] in 26 pazienti in Continuous Ambulatory Peritoneal Dialysis (CAPD) nei quali la metodica non veniva discontinuata ma mantenuta con bassi volumi di soluzione dialitica che aumentavano progressivamente fino ad arrivare a regime in 3 settimane. Si ebbe un solo caso di leakage nel post-operatorio e non si osservarono recidive nel follow-up di 17 mesi [3].
Successivamente altri studi dimostrarono che la metodica era efficace, utile e sicura, nei pazienti in CAPD, con volumi convenzionali di soluzione dialitica (1500-2000 ml), anche solo dopo 7 giorni [4]. Nel 2006, venne pubblicata una delle prime casistiche che dimostrava la possibilità di posizionare il catetere in contemporanea alla riparazione delle ernie senza complicanze significative o risultati inferiori a distanza di tempo [5]. Già in quegli anni un suggerimento-linea guida indicava la correzione con tecniche chirurgiche, che liberino i tessuti dalle tensioni, utilizzando materiale protesico (rete) [Fig. 2] e particolare accuratezza nella sutura per renderla a tenuta stagna [6].
Sempre più conferme si sono avute successivamente, nelle casistiche pubblicate, di un sicuro utilizzo immediato della PD con volumi sempre più elevati di soluzione dialitica (1000 -1500 ml). In un lavoro gli autori segnalavano una recidiva dell’ernia, nella stessa sede, nel 26% dei casi ma non la mettevano in relazione all’utilizzo precoce della PD [7]. In un altro lavoro si segnalava che nei pazienti sottoposti ad ernioplastica, senza l’utilizzo della rete, si era avuto il 12% di recidive contro lo 0% di pazienti nel quale era stata utilizzata e pertanto ne raccomandavano l’utilizzo [8].
Più recentemente, uno studio prospettico monocentrico su 27 pazienti, nei quali era stato posizionato il catetere in contemporanea alla riparazione dell’ernia (con anche casi di ernie multiple nello stesso paziente) non segnalava complicanze significative con l’inizio delle PD tra la prima e la terza giornata post-operatoria. Il follow-up di 37 mesi mostrava un’elevata sopravvivenza del catetere (96%) ma anche la comparsa, in 5 pazienti, di ernie in sedi diverse da quelle della correzione [9].
Ottimi risultati sono stati segnalati in un altro studio retrospettivo recente riguardo all’utilizzo precoce della PD su 26 pazienti sottoposti a riparazione di un’ernia con rete. Solo un paziente dovette passare temporaneamente (120 giorni) all’emodialisi per blocco del catetere da causa verosimilmente non correlata alla riparazione dell’ernia. Durante il follow-up di 48 +/-24 mesi non si verificarono recidive [10].
Nell’ultimo decennio si è andato sempre più diffondendo l’utilizzo della tecnica videolaparoscopica nella correzione delle ernie. Questa metodica è però sconsigliabile nei pazienti in PD in quanto prevede il posizionamento del mesh intra-peritoneale che potrebbe condizionare negativamente la guarigione di una eventuale peritonite in quanto il neo-peritoneo che si sviluppa necessita di 2-4 settimane per ricoprire il mesh intraperitoneale e comunque non è certo che possa garantire una adeguata barriera alle infezioni [11].
In conclusione, da quanto emerge dalla letteratura, il posizionamento di un catetere per dialisi peritoneale può essere fatto in concomitanza con la riparazione di una o più ernie della parete addominale [Fig. 3] ed il suo utilizzo può essere precoce, anche nell’immediato post-operatorio, con volumi di soluzione dialitica di 1000-1500 ml.
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Esistono diverse tecniche di posizionamento dei cateteri per dialisi peritoneale: la fluoroscopica, la percutanea (con o senza ecoguida), la videolaparoscopica e la chirurgica “open” in anestesia locale. Quest’ultima è la più diffusa al mondo e rappresenta il “gold standard” delle metodiche [1]. Questa tecnica è utilizzabile in modo autonomo dai nefrologi ed è importante ed auspicabile il loro accesso diretto alle Sale Operatorie, ma le situazioni logistiche dei vari centri, nel mondo, fanno sì che i chirurghi siano spesso coinvolti operando in autonomia o in collaborazione con i nefrologi.
I risultati riportati con questa tecnica sono sicuramente migliori rispetto alle tecniche percutanea e fluoroscopica [2], [3], inferiori invece rispetto alla tecnica videolaparoscopica avanzata soprattutto per quanto riguarda i malfunzionamenti da cause meccaniche (omental wrapping e dislocazione) [4] anche se non tutti gli studi sono concordi [5].
La tecnica prevede l’ingresso in peritoneo, [Fig.1] sotto visione, il confezionamento di una borsa di tabacco che permetta una tenuta stagna [Fig. 2], [Fig. 3] indispensabile soprattutto se si deve iniziare il trattamento con urgenza (Urgent Start Peritoneal Dialysis-USPD) che prevede l’inizio anche nell’immediato post-operatorio [6], [7], [8], [9].
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L’introduzione della tecnica videolaparoscopica (VLS) nei programmi di dialisi peritoneale (PD) risale alla fine anni ’80-inizi anni ’90 ed il suo utilizzo era volto soprattutto a cercare di risolvere le complicanze meccaniche (omental wrapping e dislocazione) che avevano una frequenza elevata, tra il 10 ed il 20% nelle varie casistiche [1], [2], [3].
La tecnica diede buoni risultati nel recupero dei cateteri ed il passo successivo fu quello di utilizzarla per posizionare, fin dall’inizio, i cateteri; tuttavia, la diffusione di questa procedura non fu rapida in quanto necessitava di una buona collaborazione con le Unità Operative di Chirurgia, non sempre disponibili dovunque nel mondo.
La VLS di base venne anche criticata perché non avrebbe offerto risultati superiori ma analoghi a quelli della tecnica chirurgica “open” che rappresentava il gold standard [4], [5].
Era innegabile però che la tecnica consentiva di effettuare altre procedure (adesiolisi, colecistectomia, appendicectomia, isterectomia, biopsie epatiche e peritoneali) contemporaneamente al posizionamento del catetere per dialisi, ma soprattutto permetteva di recuperare pazienti plurioperati alla metodica dialitica, considerata controindicata in questa tipologia di malati per il rischio di aderenze non risolvibili. Inoltre, nel 2013, venne proposta una semplificazione della procedura [6], [7], con una tecnica originale, che prevedeva l’uso di un solo accesso nella sede [Fig. 1], [Fig. 2], [Fig. 3] che veniva poi utilizzata per il posizionamento del catetere [Fig. 4], [Fig. 5].
Anche se i gruppi che utilizzano la tecnica VLS vanno sempre più verso la VLS avanzata, la VLS di base continua a mantenere un ruolo importante [8]. L’anestesia è di solito generale anche se, per interventi brevi (5-10 minuti), si può utilizzare anche l’anestesia locale. Nei paesi, come gli Stati Uniti, dove per effettuare il pneumoperitoneo si utilizza l’ossido nitrico e non l’anidride carbonica, l’anestesia locale viene usata routinariamente. In Italia l’ossido nitrico non è classificato come “medical device”.
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Il vero pioniere delle tecniche di videolaparoscopia (VLS), nel posizionamento dei cateteri per dialisi peritoneale, è stato J. H. Crabtree un chirurgo californiano che si è dedicato, fin dagli inizi della sua attività, a queste metodiche [1].
Negli USA dal 2007 al 2012 il posizionamento del catetere peritoneale in VLS è passato dal 26% al 50% e la Society of American Gastrointestinal and Endoscopic Surgeons (SAGES) ha prodotto delle Linee Guida per l’accesso chirurgico VLS alla dialisi peritoneale [2].
Il concetto sul quale si basava il passaggio dalla VLS di base alla tecnica avanzata era che se si sceglieva di usare la metodica VLS sarebbe stato opportuno, durante l’intervento, non limitarsi a guardare la posizione della punta del catetere, che avrebbe rappresentato un sottoutilizzo della metodica, ma mettere in atto delle procedure aggiuntive, soprattutto l’omentopessia e la tunnellizzazione del catetere nel muscolo retto verso il basso finalizzate a prevenire le due complicanze meccaniche maggiori: la dislocazione ed il wrapping omentale [3].
Erano già state pubblicate casistiche che dimostravano che se si effettuava, con la VLS avanzata, omentopessia e tunnellizzazione nel muscolo retto, l’incidenza di dislocazione era irrisoria (0,0 – 0,5%) mentre era molto più elevata (4 -15%) con tecniche (VLS di base, chirurgica open, percutanea o su guida eco o radiologica) che usavano una sola o nessuna delle due procedure di prevenzione [4], [5].
È innegabile quindi che i migliori risultati si ottengano, con le metodiche di posizionamento del catetere, con la tecnica di VLS avanzata, che prevede la omentopessia [Fig. 1], [Fig. 2], [Fig. 3], [Fig. 4], [Fig. 5], [Fig. 6], [Fig. 7] e la tunnellizzazione [6]. In alternativa alla tunnellizzazione, come procedura anti-dislocazione, si può eseguire l’ancoraggio [Fig. 8] o anche la sutura della fascia anteriore del muscolo retto, al di sopra della cuffia, dal basso verso l’alto [Fig. 9], [Fig. 10], [7].
A riprova di questi risultati, autori del Regno Unito, hanno pubblicato un’importante review con metanalisi, cha ha preso in esame 7 studi di coorte con 1045 pazienti. La metanalisi ha dimostrato che la VLS avanzata, rispetto alla VLS di base, ha una minore incidenza di wrapping omentale, dislocazione e leakage e, rispetto alla tecnica chirurgica open, ha anche una minore incidenza di ernie incisionali e una maggiore sopravvivenza del catetere a 1 e 2 anni [8].
Più recentemente una metanalisi di autori indiani conclude per la superiorità delle VLS ma indica una significatività solo per le complicanze meccaniche e non su leakage ed infezioni [9].
Va precisato che la VDL avanzata necessita di elevata competenza tecnica e di chirurgo e nefrologo formati.
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Nei pazienti in dialisi peritoneale (DP) le indicazioni per una colecistectomia videolaparoscopica (VLS) sono generalmente due: la litiasi sintomatica e la litiasi, anche asintomatica, come prevenzione di episodi di colica biliare e soprattutto di colecistite nei pazienti che devono essere sottoposti a trapianto renale. Nei pazienti da sottoporre a posizionamento di catetere per DP, da oltre un ventennio, ci sono indicazioni ad effettuare queste due procedure con la tecnica VLS durante la stessa seduta [1].
Naturalmente l’intervento di colecistectomia viene effettuato dai chirurghi, ma la presenza accanto al tavolo operatorio anche del nefrologo è importante, sia perché è lui che dovrebbe intervenire nel posizionamento del catetere, sia perché dovrebbe chiedere ed ottenere, dai chirurghi, alcune modifiche della loro tecnica, importanti per la futura dialisi peritoneale.
Le modifiche sono le seguenti:
- Evitare come ingresso principale della videocamera la regione ombelicale, cosa che è di prassi per i chirurghi, perché le ernie ombelicali, come complicanza dell’intervento, non sono rare nei pazienti colecistectomizzati ed ancor più frequenti sono nei dializzati per l’aumento della pressione intra-peritoneale dovuta al liquido di dialisi. L’ingresso va quindi effettuato in regione para-sotto-ombelicale destra e questo ingresso sarà poi utilizzato per posizionare il catetere peritoneale [Fig. 1].
- Altra cosa della quale il nefrologo deve convincere il chirurgo è non lasciare tubi di drenaggio: a tale scopo potrà essere utilizzato il catetere peritoneale anche nell’immediato post-operatorio, ed anche per l’introduzione di antibiotici se lo si ritiene indicato.
- Per l’utilizzo immediato del catetere peritoneale è importante che la breccia utilizzata, prima per l’introduzione della videocamera e poi per l’ingresso del catetere, venga chiusa con il confezionamento di una borsa di tabacco [Fig. 2] e che tutti gli altri ingressi dei trocar siano a loro volta chiusi con un punto dato con adeguata strumentazione [Fig. 3], [Fig. 4], [Fig. 5], [Fig. 6], [Fig. 7], [Fig. 8].
- Nelle prime due giornate post-operatorie il paziente va seguito sia dai chirurghi sia dai nefrologi in gruppo. Successivamente sarà seguito solo dai nefrologi per il prosieguo della dialisi peritoneale e l’addestramento.
Diverse sono le opinioni dei chirurghi su quale procedura effettuare per prima nella seduta operatoria. Alcuni sostengono che la parte “pulita” dell’intervento (posizionamento del catetere) dovrebbe precedere la parte “potenzialmente contaminata” (colecistectomia) con chiusura e protezione del catetere e dell’exit-site durante questa seconda fase. Con questa modalità sarebbero minori i rischi di contaminazione [2]. Altri sostengono invece che per prima deve essere effettuata la colecistectomia [3]. Questa seconda modalità, secondo il nostro parere, è più condivisibile in quanto: se il catetere è già dentro la cavità addominale la perforazione accidentale (non infrequente) di una colecisti non sterile, può contaminare il catetere comunque. Il fare la colecistectomia prima del posizionamento del catetere consentirebbe, in caso di una perforazione accidentale più o meno importante, di rinviare il posizionamento del catetere a dopo un paio di settimane evitando il rischio di contaminazione [4].
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L’infezione dell’exit site e del tunnel del catetere peritoneale è una complicanza non infrequente nei pazienti in dialisi e può rappresentare la porta di ingresso per una peritonite.
La diagnosi è clinica nella stragrande maggioranza dei casi. I pazienti si presentano con un exit site arrossato, spesso dolorabile, con secrezione siero-purulenta. Talvolta le infezioni, specie se recidivanti, possono portare all’estrusione della cuffia esterna. La coltura del materiale prelevato mediante un tampone rileva, nella stragrande maggioranza dei casi, i microorganismi responsabili. Quelli maggiormente riscontrati, nelle varie casistiche, hanno questo ordine di frequenza: Staphylococcus aureus, Pseudomonas aeruginosa, Staphylococcus epidermidis e Serratia marcescens. Il tampone è utile per la prognosi e la terapia antibiotica mirata.
Sempre più importante è diventata, negli anni, l’ecografia che si è aggiunta alla clinica nella diagnosi. È particolarmente utile perché, in mani esperte, permette di valutare se l’infezione sia limitata alla cuffia esterna o se coinvolga anche il tunnel e la cuffia interna cosa fondamentale per decidere se effettuare il “cuff-shaving” o rimuovere il catetere [1], [2], [3], [4].
La rimozione della cuffia viene presa in considerazione dopo un tentativo di terapia antibiotica che non abbia avuto successo e che è stata somministrata, nelle varie casistiche, da un minimo di 10 giorni ad un massimo di 8 settimane. In presenza di un’infezione da miceti il catetere deve essere prontamente rimosso.
La tecnica chirurgica di “cuff-shaving” consiste nell’incidere cute e sottocute cranialmente al tessuto infiammato fino ad arrivare alla cuffia e al tessuto sano [Fig.1]. Talvolta sono necessarie anche delle incisioni laterali che comprendano cuffia e tessuto infiammato adiacente. Si effettua una toilette del tessuto infiammato e si rimuove la cuffia meccanicamente [Fig. 2] con l’aiuto di etere come solvente per la colla [Fig. 3]. Si sutura la ferita facendo in modo che il catetere fuoriesca da un nuovo exit-site, craniale al precedente, su tessuto sano [Fig. 4], [Fig. 5], [Fig. 6]. Indispensabile è continuare il trattamento antibiotico per minimo una-due settimane dopo la procedura [5].
In uno dei primi studi riportati in letteratura i risultati non furono incoraggianti, con guarigione solo in una minoranza di casi (27%) con prolungamento della sopravvivenza del catetere di solo 1,5 mesi [6].
Casistiche successive hanno dato risultati decisamente migliori portando la guarigione dal 27% fino anche al 100%, ed una sopravvivenza del catetere di oltre i 6-12 mesi [7], [8], [9], [10], [11].
Il successo della procedura dipende molto anche dal microrganismo responsabile dell’infezione. La percentuale ad esito positivo appare alta (>70%) in presenza di Staphylococcus epidermidis, ridotta (50%-70%) in presenza di Staphylococcus aureus, e tendenzialmente più sfavorevole (pari o inferiore al 50%) in presenza di Pseudomonas aeruginosa o di altri germi Gram-negativi.
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L’utilizzo della videolaparoscopia (VLS) per la correzione del malfunzionamento del catetere per dialisi peritoneale risale ad oltre 25 anni fa e si è andato sempre più diffondendo [1], [2], [3], [4], [5], [6]. Il ricorso ad essa però deve essere giustificato da una diagnosi accurata e/o dal fallimento delle tecniche non invasive nel tentativo di risoluzione delle problematiche.
Le cause di un malfunzionamento possono essere molteplici e si evidenziano di solito con problemi di carico e/o scarico.
Una buona anamnesi può indirizzare verso la causa del malfunzionamento ma da sola difficilmente potrà essere decisiva: il paziente può denunciare costipazione, dolori e/o riferire la presenza di frustoli di fibrina nel liquido di scarico.
Importante è la radiografia diretta dell’addome con la quale possono essere evidenziati i casi di intasamento fecale e le dislocazioni, ma tale esame non è dirimente se la causa del malfunzionamento è un “omental wrapping”. Negli ultimi anni si sta sempre di più affermando, in mani esperte, l’utilizzo della ecografia (anche con il doppler) che, oltre alle infezioni del tunnel, consente anche di diagnosticare le dislocazioni e soprattutto l’“omental wrapping” [7] [Fig. 1], [Fig. 2].
Una volta fallite le tecniche non invasive, in presenza di un malfunzionamento, si ricorre alla VLS che consente una corretta diagnosi, il trattamento ed anche l’effettuazione di procedure che possono prevenire ulteriori episodi.
Dopo aver diagnosticato la causa del malfunzionamento, nell’80% dei casi un “omental wrapping” [Fig. 3] e/o una dislocazione, si può procedure allo sbrigliamento, alla disostruzione intraluminale ed al riposizionamento del catetere [Fig. 4]. Importante è poi effettuare l’omentopessi (sollevamento e legatura dell’omento al di sopra della linea ombelicale trasversa) [Fig. 5], [Fig. 6], [Fig. 7], [Fig. 8], [Fig. 9], [Fig. 10], [Fig. 11] e l’ancoraggio [Fig. 12] per evitare recidive delle problematiche.
Il successo della metodica è molto elevato, consente di recuperare cateteri in oltre il 95%dei casi ed è possibile, quasi sempre, anche un riutilizzo immediato della metodica senza un passaggio intermedio alla dialisi extracorporea.
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